I due colori della cattedrale di Colonia
di Marco Meneguzzo

(dalla mostra alla galleria Spaziotemporaneo 1999)

Lucia Sterlocchi costruisce oggetti. Affermazione paradossale, se di questo lavoro si considera la suddivisione geometrica, la parcellizzazione cromatica, la perfezione delle proporzioni, forse anche la storia personale precedente, in una fase l'apparenza del "quadro" o, al massimo, della «struttura primaria", in quelle poche opere tridimensionali sinora realizzate: eppure, in ognuna di esse, oggi, c'è un aspetto tattile che nega quell'apparenza, che ci invita a riconoscere il mondo, cioè a conoscerlo di nuovo e come nuovo, dietro la più pura delle astrazioni.
Una conversazione: mostrandomi un dittico a strisce alternate, Sterlocchi mi dice ridendo che, nonostante non titoli quasi mai i suoi lavori, in quel caso quello "era" la cattedrale di Colonia, nonostante di questa avesse, forse, soltanto il tono grigio scuro del gotico nordico, e nulla indicasse neppure lontanamente qualcosa che poteva rappresentare quell'edificio. Il racconto è quasi aneddotico, ma come ogni aneddoto contiene una chiave di lettura che lo supera, e in questo caso non si tratta semplicemente di ritrovare una passione o una sensazione dell'artista: che Sterlocchi ami la cattedrale di Colonia sarebbe una notizia poco interessante, se non gettasse una luce nuova sulle motivazioni del suo lavoro, che non sono ovviamente di carattere storico o citazionistico, ma strutturale. Ogni suo lavoro nasce dall'interpretazione del mondo, e non dalla concretizzazione di forme universali. Non è, dunque, l'utopia della creazione assoluta, ma il distillato, il risultato ultimo della realtà, su cui e stata operata una tale "riduzione" da farla diventare invisibile, ma non assente. In sé, l'operazione non presenta eccessive novità: tutta l'arte non è che riduzione, e l'astrazione non è etimologicamente che il "tirar fuori" qualcosa da un contesto, ma se in questo lavoro ci può essere qualcosa che stupisce è la portata, la "quantità", se così si può definire, della riduzione, che arriva quasi al grado zero, senza tuttavia toccar1o mai (perché, in quel caso, le questioni assumerebbero una valenza concettuale del tutto differente, facendo entrare in gioco tutti quei problemi relativi all'analiticità del fare arte, che nel nostro caso risultano invece secondari); nei lavori di Sterlocchi c'è sempre un residuo di realtà che nelle ultime opere è rappresentato dal materiale usato il quale, a prima vista, non è che un colore, una cromia utile alla costruzione dei dittici o dei polittici che l'artista tuttora predilige. Ma, si sa, la vista, oltre ad essere il più astratto dei sensi e oserei dire il più "presuntuoso"... può anche essere fallace, proprio per la sua presunzione di totalità, soprattutto se applicata a qualcosa che assomiglia a un quadro: invece, non è colore, ma materia colorata, qualcosa che non è stata dipinta, ma è nata pigmentata a quel modo. Non finge di essere qualcosa, non simula il colore, "è" quel colore e quella materia, e contemporaneamente è quel residuo di realtà che sconvolge ogni lettura puramente visiva di queste opere, che le allontana definitivamente dalla pittura astratta tradizionalmente intesa. È sufficiente questo insertotattile, non visivo, umile come il tocco di un polpastrello, non orgoglioso come lo sguardo distaccato perché 1e nuove opere di Sterlocchi siano oggetti e non quadri. Di fronte a questa constatazione, il processo mentale attuato per realizzarle e che in qualche modo il fruitore deve ripercorrere appare duplice, comporta cioè un movimento di decostruzione e di ricostruzione o, se si vuole, di riduzione e di ritorno alla realtà: dalla sensazione e dalla percezione del reale la cattedrale di Colonia, ma anche un gruppo di bidoni vuoti, o una porta... un vertiginoso processo riduzionistico trasforma l'oggetto in una forma quasi assoluta, ma questo stesso processo non è compiuto se non si percorre anche il sentiero inverso, la riappropriazione della realtà attraverso quel lembo rimasto, quell'aggancio, quella memoria che l'artista ha lasciato nell'opera, e che è il fulcro dell'operazione artistica. Cosa rimane di questo percorso, dopo che lo è sperimentato? Come in ogni viaggio consapevole, andare significa voler conoscere, e questo attraversamento del reale restituisce a chi lo compie una percezione più acuta del mondo, quasi si fosse in grado di decostruirlo e di ricomporlo, e tuttavia è ancora qualcosa di più di un meccanismo mentale, è la sensazione dell'infinita stratificazione, degli innumerevoli livelli di esistenza della realtà, pieni e compiuti anche quando sembrano assenti.

Per elezione
Alberto Veca Milano 1993

(dalla mostra alla galleria Spaziotemporaneo 1993)

Dove si preferisce non dar conto delle tappe di avvicinamento che hanno portato Lucia Sterlocchi alla fase qui documentata. Dove analogamente non si discorre della congiuntura generale in cui l'operare si è svolto e che comunque è sotto gli occhi di tutti, almeno di quanti leggono queste note. Non perché siano approcci poco interessanti o stimolanti ma perché nell'occasione si vuole, più propriamente e stringatamente, discorrere come le opere si offrano a una lettura liberata dalla necessità di inquadrare o legittimare.
E l'assoluta perentorietà di esse aiuta e pretende, credo, questo approccio diretto.
Dove allora la lettura vuol essere, a dispetto di quanto tralasciato, consapevolmente molto e importante, un gioco di adesione, se vogliamo di comunicazione, nel suo etimo originario di mettere o avere qualcosa in comune con un altro: nel suo essere oggetto e artefatto, carico di una ideazione formale e di una realizzazione manuale fatta di prove e di aggiustamenti progressivi fino alla "definizione", l'opera si offre al contatto non mediato.
E certamente quello attuale, documentato in questa occasione e riferibile agli ultimi due anni di lavoro, risulta per Sterlocchi un punto di stazione di particolare importanza in quanto, senza pretendere una linearità o una assoluta consequenzialità nel percorso evolutivo di un processo espressivo, esso porta in emergenza, come fatto primario di immediato approccio, una formacolore dagli inequivoci caratteri formali.
Una figure perimetrale rettangolare bipartita, successivamente quella quadrata quando più complessa si configura la variazione e tre colori eletti: un azzurro, un rosa, un verde più il nero come risultante nelle opere esordiali di questo ciclo, come estremo termine di confronto del colore trovato. E si tratta di una ricognizione che ha conosciuto fasi e risultati provvisori ma non per questo irrisolti, e che si è conclusa con l'attuale limitata tavolozza, ormai diventata non tanto un bagaglio di elementi "per rappresentare" quanto il luogo e il senso stesso della rappresentazione. Pertanto si tratta di un "determinato" colore caratterizzato da altrettanto determinati tono e brillantezza. Questa fase investigativa è alle spalle delle opere di oggi, non visibile ma percepibile una volta che si osservi la singola campitura, la sua opposizione e la sua differenza con l'altro campo, e quindi si "corrisponda" con essi.
La qualità che si coglie è quella di un lavoro progressivamente semplificato, all'apparenza elementare, anche inaccessibile a una lettura frettolosa, sempre consolabile nel trovare un esordio e una fine nel processo del dipingere: qui invece siamo davanti al risultato del processo senza alcuna indicazione di esordio e di fine, senza discorsività ma nell'evidenza della presenza compiuta che può andare dal già citato contrasto cromatico alla più modulata variazione sulla monocromia delle opere più recenti.
Loperare allora pretende di porsi come riflessione e il leggere assume la medesima fisionomia intellettiva: "comunicazione" appunto, luogo già citato ma che mi sembra centrale nel discorso, e comunicazione come "sintonia".
Come se l'immaginario ricercato e inventato potesse concentrarsi e decantarsi in un campo e poi agevolmente agire come sostituto, figura di riferimento, luogo dell'esplorazione e insieme della reinvenzione.
Si è citato il colore come elemento primario dell'agire di Sterlocchi perché la presenza delle figure gli è sostanzialmente subordinata. O meglio il campo cromatico assume la fisionomia della partizione elementare, dove risulta determinante l'orizzontale e la verticale, figure omologhe a quelle perimetrali: così, per differenze che possono andare dal contrasto degli opposti a una più modulata scansione nella monocromia, l'occhio può agevolmente, senza particolari congetture o avvertenze preconcette, cogliere la differenza, quindi la variabilità del singolo colore protagonista o della coppia.
In effetti, anche se non espresso in modo vincolante, la lettura della singola opera trova la sua più completa pregnanza in rapporto alle altre, nella figura retorica del dittico e del trittico, quando cioè è possibile rincorrere da un campo all'altro il medesimo colore a confronto con se stesso e con il campo adiacente.
L'elezione del singolo colore, steso in una campitura assolutamente omogenea, una sorta di "pelle" in tutto aderente al supporto, conosce così una sua ulteriore inchiesta nel porsi in gioco, a contatto con l'intero sistema cromatico trovato.


Alcune domande a Lucia Sterlocchi
di Patrizia Serra
(Intervista dalla mostra alla galleria Spaziotemporaneo 1987)

Silenzio, nella grande stanza non arrivano i rumori della strada, ma ci si trova al centro di un paesaggio interno ricco di provocanti suggestioni. Barattoli di terra e di colore un po' ovunque e le tele tese alla parete. Viene voglia di curiosare, di toccare un po' tutto. Fra le molte annotazioni, disegni conservati ordinatamente nei cassetti, si delinea una storia, un iter preciso e un po' folle.

A partire da un certo punto della tua ricerca tu sei stata coinvolta dai quattro elementi...
Sì, dagli anni '70. In realtà però non mi sono mai posta nell'ottica di far uso degli elementi naturali.
Mi sono resa conto di questo avvenimento solo in seguito, alla conclusione di un ciclo di opere.
Nei primi lavori ero orientata alla conoscenza dello spazio. Uno spazio attraversato da segni delicati, vaghe forme di nubi e piccoli accenni di terra.

Quando poi con I'«acqua» sono comparsi dei risvolti più teorici e squisitamente mentali, quale è stato l'iter di trasformazione del senso che davi a questo elemento?
Quando lo spazio divenne scuro con delle piogge fredde e sottili, l'acqua divenne un elemento terreno: era il mare, un mare che non conoscevo. L'acqua, come desiderio di riconciliarsi con l'elemento primario, è stata oggetto della mia ricerca per circa cinque anni.
Le onde erano oblique e in moto continuo, come se si inseguissero e si frangessero fra di loro. Tutto era determinato da segni inventati, matematici/scientifici che avevano la funzione di circoscrivere il moto delle onde e razionalmente di afferrare l'inafferrabile.
Nello spazio compositivo le onde diventarono sempre di più e cominciarono a colorarsi di colori naturali come se fossero riflessi dall'esterno.
Ad un certo punto della mia ricerca mi risultò evidente prendere dell'acqua e chiuderla in un sacchetto di plastica, incorniciarla e scrivere la formula chimica H20.
Non era più l'acqua del mare, intesa come elemento della natura, ma l'acqua del rubinetto intesa come sostanza organica, sostanza prima per la sopravvivenza.

E con la terra...
In seguito, da questo elemento conosciuto passai inconsciamente a un altro elemento della natura: era la terra, la terra che calpestavo tutti i giorni.
Cominciai a raccoglierla e ad accorgermi delle sue differenze cromatiche.
La usai come metodo di conoscenza, stendendola su carte trasparenti che col tempo divennero sempre più ampie: erano delle distese di terra evidenti, seducenti, segrete, che potevano prolungarsi senza soluzione.
In seguito furono ancora dei segni a definire la composizione di queste opere: segni che risultavano essere molto più liberi, aerei, come se avessero una funzione trascendente.
Scoprii la presenza in ogni terra di lucidi frammenti color oro e argento che affiorarono nelle opere.
La terra era diventato un elemento cromatico.

Il materiale ricco di luci che manipolavi era ormai soprattutto colore, quando si è trasformato in olio su tela?
Circa due anni fa, proprio nel periodo in cui dovevo preparare il lavoro per Ferrara sul mese di Gennaio da i mesi mancanti» di Schifanoia. Avrei voluto riempire la grande opera di terre bianche e ghiacciate, ma sentii l'esigenza di cambiare tecnica: utilizzai l'olio su tela perché la nuova misura mi richiedeva una maggiore trasparenza.
In questi ultimi pezzi c'è una serie di allusioni ad una sintesi la cui ambiguità è determinata dalle suggestioni del percorso dell'occhio. Leggi il tuo spazio come un'ipotesi in via di verifica?
Ho continuato a lavorare su tele, tutte di uguale misura. I colori si alternano da oscuri a chiari e luminosi, come se avessi voglia di vedere oltre il colore e dentro.
La compresenza di tutta la mia esperienza passata, di elementi dello spazio, dell'acqua, della terra, delle ombre e delle luci si condensa in una misura particolare, costante, che non leggo come supporto ma come circoscritta area in cui si muove il corpo. Improvvisamente mi sono accorta che dentro questa misura giungevo con la mano e con l'occhio ad accedere a ciò che avevo di fronte.